ARTICOLI / L'abbandono

Il fenomeno dell’abbandono sportivo

Silvano Monti, Psicologo dello Sport

Come primo passo, per cercare di avere una visione globale del fenomeno, dobbiamo chiederci quali sono i principali motivi che convincono un bambino ad iniziare una qualsiasi attività sportiva. La molla iniziale che fa decidere di intraprendere questa nuova avventura, è formata da diversi fattori: il provare piacere nella pratica motoria, il giocare, il relazionarsi con gli altri, il divertimento fine a se stesso. Ma allora perché esiste il fenomeno dell’abbandono? Perché i ragazzi smettono di praticare uno sport a cui non avrebbero rinunciato fino a poco tempo prima?

Non si pratica più uno sport quando le motivazioni iniziali, precedentemente descritte, non vengono, in parte o del tutto, soddisfatte. I motivi basilari di questa scelta, sembrano essere: la carenza di momenti di gioco, una spropositata esasperazione della competizione sportiva, il raggiungimento della vittoria ad ogni costo.

Molte ricerche sono state fatte a questo proposito, individuando delle cause specifiche, comuni a molti casi di abbandono sportivo. Tra le più citate risulta lo studio, inteso sia come impegno che richiede sempre maggior tempo, sia come scadente rendimento scolastico; altre variabili rilevanti sono il non sempre facile rapporto con l’allenatore, visto come poco attento alla relazione interpersonale e troppo esigente; ci possono poi essere delle difficoltà legate alla socializzazione ed alla competizione con i compagni; la troppa fatica fisica che si deve sopportare; le strutture troppo lontane e fatiscenti; i costi troppo alti; e i genitori troppo “pressanti”.

Queste motivazioni non sono comunque caratteristiche stabili o leggi assolute applicabili in ogni contesto sportivo, ma anzi si modificano nel delicato periodo dell’adolescenza, subendo un’influenza sociale, famigliare, personale. Il fenomeno dell’ abbandono sportivo è un dato di fatto presente e di non facile interpretazione, in ogni caso, si potrebbe riesaminare il problema alle radici, tralasciando l’ottica della cura ed assecondando quella della prevenzione, attraverso una più attenta e ragionata progettazione dei programmi sportivi ed una maggiore conoscenza, teorica e pratica, di alcune discipline scientifiche come la psicopedagogia e la psicologia dello sport.

Questa ultima variabile merita un particolare approfondimento. Sovente le competizioni sportive sono seguite, organizzate ed in alcuni casi anche dirette, da dei genitori. Questa positiva iniziativa, può però rivelarsi, un’arma a doppio taglio, in quanto, nonostante l’impegno e la buona volontà, gli adulti possono diventare una delle possibili fonti di interferenza nell’attività sportiva del giovane. Chiedere o pretendere da un giovanissimo, fin dalla sua prima esperienza sportiva, la vittoria ad ogni costo, promettendo sudore e fatica come ricompensa, può influenzare negativamente il processo di sviluppo delle motivazioni a fare dello sport. Se a questo si aggiunge un inadeguato supporto emotivo nei momenti delicati degli insuccessi e delle sconfitte, si vengono a creare le premesse per cui il bambino giocherà non tanto per se stesso ma per le richieste, per lui a volte incomprensibili, del nostro mondo fatto a misura di adulto.

Bisognerebbe inoltre ricordarsi che la nostra idea, il nostro modo di concepire di divertimento, non sempre è uguale a quello del bambino: se per noi l’importante è vincere, senza nessuna via di mediazione, per lui inizialmente può essere più interessante l’aspetto ludico - motorio dello sport, il correre ed il giocare con altri bambini, gradualmente, nel periodo puberale, sarà poi lui ad impegnarsi maggiormente nella competizione, affermando la sua voglia di crescere e di affermarsi.

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